«Vediamo i pericoli, eppure agiamo poco»

«Sospinti come siamo dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione, viviamo un momento in cui pur vedendo perfettamente i pericoli agiamo poco». Professoressa all’Università di Losanna, Sophie Weerts riassume così, in questo Forum, le sfide legate all’IA nel settore della giustizia e dell’amministrazione.

04.10.2023 - Kenza Kebaili

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Sophie Weerts al Tribunale amministrativo federale

Sophie Weerts, nelle sue ricerche studia l’impatto di una società sempre più digitale sul diritto pubblico. Qual è la situazione attuale?

La situazione è complessa perché diritto e tecnologia interferiscono l’uno con l’altra. Per spiegarla possiamo approcciare la questione da tre angolazioni distinte. Il diritto è già complesso di suo. Nella visione classica si considera in effetti che per sua stessa vocazione sia chiamato a governare le situazioni e quindi potenzialmente le tecnologie che vediamo dispiegarsi nelle nostre vite. Dalla metà degli anni ’90 e con l’avvento di Internet, il rapporto tra diritto e tecnologia è stato segnato da una narrativa secondo cui il digitale e l’analogico sono due mondi distinti, per cui il diritto che regola le nostre vite analogiche non si applicherebbe all’universo digitale. Dato il contesto non sorprende quindi che i nostri sistemi giuridici abbiano regolamentato poco la questione digitale, a parte che per fronteggiare puntualmente la sfida posta dalla protezione dei dati personali e poi dalla criminalità informatica. Si è anche puntato molto sulle risposte della «soft law», con i codici etici per esempio, che non hanno però sortito grandi effetti poiché non sono vincolanti.

 

Ci sono altre prospettive da esplorare?

Sì, e la seconda ha una dimensione particolarmente inquietante. Qui, la questione non sta più nella regolamentazione della tecnologia da parte del diritto, bensì nella regolamentazione della tecnologia da parte della tecnologia. Siamo cioè entrati in una fase in cui la tecnologia può sostituirsi al diritto, ha una dimensione normativa sugli individui. Non si vieta una manifestazione, ma se lo spazio in cui si svolge è videosorvegliato, le persone non ci vanno per paura di essere catalogate. È questo «chilling effect», come lo chiamano gli specialisti, che porta dunque i singoli a rinunciare a una parte dei loro diritti individuali. La terza faccia del rapporto tra diritto e tecnologia è per finire la più sorprendente. Siamo arrivati al punto in cui adattiamo degli elementi dei nostri sistemi giuridici per renderli compatibili con l’ambiente digitale.

 

Il ritmo e/o la natura dello sviluppo digitale la hanno sorpresa?

Ciò che mi colpisce particolarmente è, uno, il poco dibattito che c’è sui progressi tecnologici e, due, la logica di sperimentazione collettiva alla quale sembriamo aver aderito o esserci rassegnati. Mi spiego: in quanto società, abbiamo già sperimentato tecnologie che ci hanno spinto fino ai confini del moralmente ammissibile. Basti pensare alla tecnologia nucleare a Nagasaki o Hiroshima. Ora, invece, sospinti come siamo dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione, viviamo un momento in cui pur vedendo perfettamente i pericoli agiamo poco. Va poi aggiunto a questo che i principali protagonisti all’origine di questi progressi non sono istituti pubblici o semi-pubblici, ma delle mega imprese in mano a un pugno di persone, con sede prevalentemente in Cina e negli Stati Uniti.

 

E questo può causare dei problemi?

Sì, perché queste imprese hanno un modello di business ben preciso: generare soldi attraverso la vendita dei nostri dati, che raccolgono ogni volta che ci connettiamo per poi inondarci di pubblicità. Di fronte a una situazione come questa è comprensibile che i legislatori siano smarriti, ma bisogna superare lo stato di paralisi, discutere e decidere servendosi dello strumento principe dello Stato di diritto, cioè appunto il diritto. Da questo punto di vista non si può che plaudere agli sforzi fatti dall’Unione europea e alla sua scelta di imboccare la via della regolamentazione. Questa non sarà forse perfetta, ma ha il merito di incitare gli altri a considerare seriamente la questione.

«Il Consiglio d’Europa sta redigendo una nuova convenzione sull’IA e la Svizzera è uno degli Stati più attivi nel progetto.»

Sophie Weerts

La digitalizzazione, o intelligenza artificiale che dir si voglia, è stata sufficientemente considerata nella revisione della legge sulla protezione dei dati?

Declinata a livello internazionale nella Convenzione 108+ del Consiglio d’Europa o a livello nazionale nelle leggi federali e cantonali, la regolamentazione sulla protezione dei dati è stata pensata come «tecnologicamente neutra», il che significa che si applica a tutti i tipi di tecnologia. Questo approccio è interessante, perché mira a coprire tutto lo spettro delle tecnologie dell’informazione, indipendentemente dalle evoluzioni tecnologiche. La questione della protezione giuridica di cui devono poter beneficiare gli individui non si limita tuttavia alla questione della protezione dei dati personali. Primo: le tecnologie dell’IA funzionano anche con dati diversi dai dati personali, dati che a loro volta possono anche dover essere sottoposti a un regime giuridico specifico. Secondo: le tecnologie dell’IA pongono nuove questioni riguardo al nostro modo di capire la discriminazione o ancora l’onere della prova in materia di responsabilità degli sviluppatori e utilizzatori, che spesso non sono i destinatari finali della tecnologia.

 

E gli Stati, agiscono?

L’Unione europea ha avviato un processo legislativo volto a regolamentare l’immissione sul mercato dei sistemi di IA (regolamento sull’IA), ma anche a sancire un nuovo regime giuridico della responsabilità in caso di utilizzazione di sistemi di IA. Il Consiglio d’Europa sta anch’esso redigendo una nuova convenzione sull’IA e la Svizzera è uno degli Stati più attivi nel progetto.

 

Quali lavori possono già essere svolti dall’IA nel settore della giustizia o potranno esserlo in futuro?

Il lavoro di ricerca delle fonti giuridiche è enormemente facilitato dalle tecnologie dell’informazione. L’avvento dell’apprendimento automatico supervisionato o non supervisionato ha permesso di accrescere la rapidità e la precisione delle ricerche informatiche, facendo anche nascere servizi in grado di offrire soluzioni giuridiche «chiavi in mano» che possono ad esempio arrivare persino all’elaborazione di contratti. Questo tipo di attività ha peraltro dato luogo allo sviluppo di tutto un settore economico che va sotto il nome di LegalTech. L’apprendimento profondo è una tecnologia che permette di andare ancora oltre. In Colombia, sono già due le sentenze emesse da magistrati che hanno dichiarato di aver utilizzato ChatGPT per aiutarsi a prendere la loro decisione. Questa doppia utilizzazione è stata largamente criticata dai giuristi specializzati in nuove tecnologie. Di fatto, avere la tecnologia non è tutto: la macchina deve poi disporre di carburante per funzionare. Ed è qui che entrano in gioco i dati. Nello specifico non esistono informazioni quanto all’origine dei dati utilizzati né sul modo in cui sono trattati, il che significa che le fonti giuridiche devono essere registrate in formati leggibili per la macchina.

 

Cosa pensa del progetto Justitia 4.0?

Il progetto è ambizioso perché la giustizia è un ambiente a sé e in più, aggiungerei, sensibile. Data l’importanza della sua indipendenza dagli altri organi dello Stato, rientra inoltre in un’organizzazione amministrativa specifica. In questa luce non sorprende che il mondo giudiziario sia dunque quello in cui si è spinto meno sui progetti di digitalizzazione. La trasformazione digitale dei servizi centrali dello Stato è stata avviata da molto più tempo. C’è stata probabilmente una certa reticenza da una e dall’altra parte a istradare il mondo giudiziario verso la digitalizzazione. Non conosco tutti gli elementi del progetto, ma posso immaginare che le sfide siano di carattere sia tecnico che umano. Sul piano tecnico, si tratta di un progetto che deve integrarsi in un’organizzazione probabilmente sviluppata in maniera decentralizzata dal punto di vista tecnologico. Sul piano umano, c’è poi la questione del cambiamento che è sempre una sfida per un’organizzazione. Uomini e donne devono adattarsi a un nuovo ambiente di lavoro, a nuovi modi di lavorare e questa è una transizione che richiede tempo e che l’organizzazione deve accompagnare.

 

Un piccolo gruppo chiamato «Update Schweiz» vuole dare alla Svizzera una nuova costituzione sostenendo che il nostro Paese non sarebbe sufficientemente preparato alla digitalizzazione. Che ne pensa?

Questo tipo di iniziativa ha senz’altro il merito di mettere in agenda la questione del rapporto tra diritto costituzionale e trasformazione digitale. Preciso che non ho avuto il testo per le mani e che quindi reagisco sulla base di ciò che ho letto nei media, ma devo dire che sono molto scettica quanto all’idea di una revisione totale della Costituzione federale. Se il punto è adattare le disposizioni costituzionali per integrarvi elementi che permettano agli individui di vedersi riconoscere più diritti individuali a livello digitale e permettere ai diversi organi della Confederazione di utilizzare le tecnologie dell’informazione, non vedo il bisogno di passare per una revisione totale. Si potrebbero benissimo proporre delle modifiche mirate del testo costituzionale in vigore. Se l’intento dietro la proposta di revisione totale è invece adattare la nostra concezione del diritto per renderlo ad esempio più «agile», riallacciandosi così al discorso neoliberale antigiuridico, allora sono completamente contraria al progetto, perché ci vedo un pericolo molto diretto per la democrazia.

 

Come si presenteranno la giustizia e l’amministrazione pubblica di domani?

È difficile da prevedere! Attualmente la tendenza è ancora quella di puntare a tutta sul digitale. I progetti di «e-government», di «digital government» o ancora di «smart government» si susseguono e sono segnati dai progressi tecnologici. Prima c’è stato il dispiegamento di computer sulle scrivanie, la creazione di portali d’informazione destinati agli utenti, la digitalizzazione dei documenti cartacei. Poi abbiamo assistito allo sviluppo degli sportelli elettronici che permettono di accedere a formulari online e a volte anche di comunicare con i servizi pubblici dal proprio telefonino. Siamo ora nella fase degli oggetti connessi, dei sensori e altri algoritmi. In un contesto del genere la tecnologia diventa sempre più discreta, ma onnipresente. I computer quantici e i programmi informatici che utilizzano apprendimento profondo e reti neuronali per produrre testi e codici sorgente apriranno probabilmente la via a una nuova tappa di adattamento della giustizia e dell’amministrazione pubblica alla trasformazione digitale, con un servizio sempre più tagliato a misura degli utenti.

A proposito di Sophie Weerts

Sophie Weerts è attualmente professoressa associata all’Institut des hautes études en administration publique della Faculté de droit, des sciences criminelles et d’administration publique dell’Università di Losanna. Originaria del Belgio dove ha conseguito un dottorato in scienze giuridiche, è arrivata in Svizzera nel 2017. Oltre a lavorare come ricercatrice, ha esercitato per diversi anni come avvocata specializzata in diritto pubblico a Bruxelles. È anche stata perito presso il Ministère fédéral de la fonction publique nel quadro della riforma e della modernizzazione dell’amministrazione pubblica belga.

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